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Martiri dell’Oltrardo
Presentazione intervento per cerimonia dei martiri dell’Oltrardo del I maggio che sarà riproposto nell’aula magna della scuola secondaria di I grado sabato 12 maggio 2018 alle ore 9.00.
Noi ragazzi delle classi 3B, 3C e 3D della scuola media Nievo abbiamo scritto due racconti e una lettera che prendono spunto da alcuni avvenimenti della vita di tre personaggi realmente esistiti che però sono stati modificati , inserendo delle parti di nostra creazione sebbene queste ultime siano comunque verosimili. Lo scopo di questi tre brani è far percepire la negatività della guerra che provoca solo morte e distruzione per tutti, sia per i vincitori che per i vinti.
Gli avvenimenti a cui facciamo riferimento nei testi ci sono stati raccontati dai signori Oreste Cugnac, Pier Igino e Corrado Lotto e Romano Fontana, per questo vogliamo ringraziarli. Per concludere, sempre noi ragazzi canteremo e suoneremo tre brani: Fischia il vento, Sette fratelli Cervi e Imagine. I primi due sono canti partigiani e il terzo invece è un celebre brano di John Lennon che ci invita a vivere in fratellanza.
Noi ragazzi con questo intervento vogliamo dire no alla guerra sempre e comunque.
Buon ascolto!
Buongiorno a tutti.
Noi della terza C, in occasione di questa cerimonia, abbiamo avuto l’incarico di scrivere un racconto su un soldato tedesco. Ci siamo interrogati su come scrivere questo racconto, e subito ci è venuto in mente di narrarlo in forma di lettera. Abbiamo voluto cercare di riconciliare il passato con il presente, di ristabilire in qualche modo un ordine o di chiudere un cerchio. Abbiamo voluto pensare che molti di quei soldati, se non tutti, avessero una coscienza e che siano stati anche loro, in fondo, vittime della guerra. Vi lascio al racconto.
Norimberga, 16 settembre 1994
Mi chiamo Hans Durkheim e vivo a Berlino, dove lavoro come ricercatore universitario. Ora mi trovo a Norimberga, perché due giorni fa è morto mio padre. Riordinando le sue cose, nel primo cassetto del comò, dove teneva le foto e ricordi di mia madre, ho trovato una lettera indirizzata a me. L’ho letta: è stato devastante scoprire così questo segreto nella vita di mio padre, che egli ha voluto, solo ora, raccontare. Ecco la sua lettera:
“Caro Hans,
non posso andarmene portandomi via un segreto che ha segnato tutta la mia vita e di cui non sono mai riuscito a parlarvi. È stato un segreto troppo pesante, troppo duro da dire e nel silenzio ho creduto di poter attenuare il dolore che il suo ricordo ha portato, tutti giorni, con sé. Non è servito, però e quella che tu conosci come la mia vita è stata, in realtà, una specie di recita, un velo che copriva la vergogna e Il senso di colpa, che hanno ucciso la mia anima e devastato la mia coscienza in quel maledetto 14 settembre 1944.
Circa sessant’anni fa la crisi economica stava distruggendo la nostra nazione. Non c’era niente da mangiare, la disoccupazione era alle stelle. La popolazione era disperata. Io ero ancora piccolo, ma riuscivo a capire la miseria nella quale vivevamo. In questi anni di disperazione ha avuto modo di affermarsi colui che ci avrebbe rovinato. Si chiamava Adolf Hitler e per la maggior parte dei tedeschi sembrava l’unica soluzione ai problemi. Anch’io riponevo tutta la mia fiducia in lui. Solo più tardi ho capito che mi sbagliavo. Giovane e ingenuo, mi arruolai nelle SS, entusiasta di aiutare la mia patria. Di lì a poco iniziò la guerra e io non vedevo l’ora di combattere. Nel ’44 venni mandato in Italia del Nord, a Belluno, una cittadina piccola, ma con parecchi partigiani che ostacolavano le nostre operazioni.
Fino ad allora avevo già ucciso in battaglia, ma mai in quel modo, mai come in quel giorno. Il 14 settembre del ’44 tutto cambiò.
Nel pomeriggio ricevetti la notizia che due compagni erano stati uccisi da partigiani travestiti da tedeschi e in quel momento ci portarono il solito caffè, ma stavolta aveva un gusto particolare e poi mi sentii strano, come eccitato, esaltato. Dopo ci ordinarono di salire su un autocarro, eravamo una cinquantina; il viaggio non durò molto, la nostra destinazione era una zona denominata Fiammoi. Arrivando vedemmo i due compagni a terra, in mezzo alla strada. Solo allora ci fu ordinato di rastrellare 10 persone qualsiasi e di fucilarle: era una rappresaglia, 5 italiani per ogni tedesco. Dovevamo operare con velocità. A piedi, ci dirigemmo lungo lo stradone verso la ” Rossa”: lungo il cammino incontrammo della povera gente, che per ordine dei miei superiori venne uccisa a sangue freddo. 10 persone innocenti: alcuni erano solo dei ragazzi e comunque erano tutti abbastanza giovani.
La cosa peggiore, Hans, fu che anch’io fui coinvolto in questo eccidio.E ciò che prima mi sembrava giusto ora mi si rivelò disumano. Ero già entrato in due case, dove non c’era nessuno; sapevo che già tre persone erano state uccise e un senso di inquietudine mi assalì. In quel momento vidi i miei compagni che spintonavano due ragazzi dietro un fienile: qui chiamarono me e Kurt e ci ordinarono di fare fuoco. Mentre premevo il grilletto non sentii nulla, ero come di ghiaccio.
Ma nei giorni successivi realizzai quello che ancora oggi penso : che la guerra é uno schifo, che tutti ne sono vittime a parte chi comanda, che i soldati sono costretti a scelte orribili e impietose. Quel giorno sparai, sapevo che se non lo avessi fatto mi avrebbero ucciso come traditore e non ebbi il coraggio di oppormi. Avevo 18 anni ed ero stato plagiato.
Ma da quel giorno orrore, vergogna e senso di colpa si impossessarono di me. Avevo ucciso un ragazzo e la ferita che si aprì dentro di me non si richiuse più. Sono passati decenni, ma non c’è stato giorno in cui non abbia pensato a quelle persone, a quelle vite stroncate senza un perché
Negli anni successivi ho però commesso un altro grave errore: ho cercato di dimenticare e quando finalmente trovai il coraggio di cercare i parenti delle vittime per chiedere perdono, ero ormai vecchio e malato. Per questo ti ho scritto questa lettera: perché tu porti loro le mie parole, perché tu chieda perdono da parte mia.
Dì loro che mi vergogno di essere stato un SS, che mi vergogno anche di essere stato un tedesco. La guerra mi ha preso e mi ha trasformato in un mostro.
La guerra é una follia, Hans, non ha una logica e tutte le persone coinvolte sono in qualche modo vittime, a parte chi comanda.
Tu devi sempre odiare la guerra, sempre respingerla.
Quando sarai a Belluno, prima di ripartire ti prego di andare alla “Rossa” e di lasciare un mazzo di fiori, per terra, vicino alla chiesetta poi prega per loro. E prega per me.
Tuo padre
Benedetta De Bortoli, Joan Esanu, Raccanello Rebecca, Arianna Rampino, Hala Yaafouri, Umberto Dell’Osbel della classe IIIC.
ZIO ORESTE
<> mi urlò il soldato tedesco. Non riuscii a capire cosa mi stesse dicendo, finché il compagno alla sua sinistra avanzò e mi strattonò. Cercai di liberarmi per quanto possibile, ma aveva una presa ferma sulla mia spalla, e poi ricevetti un colpo secco sulla nuca e… vidi solo nero e persi i sensi. Quando mi risvegliai, non riuscivo a distinguere dove fossi, mi sembrava solo di essere rinchiuso in una scatola, come se fossi un animale, con a stento l’aria per respirare. Mi accorsi poi di non essere solo in questa “scatola soffocante”, c’erano altri nove ragazzi, chi era più grande, chi più piccolo, probabilmente ci sarebbe toccata la stessa sorte.
Ad un tratto, a causa di una brusca frenata, ci ammassammo tutti l’uno sull’altro. Vedemmo uno spiraglio di luce, sentimmo una voce potente che intimò ad alcuni di noi di scendere. Sembrava una voce divina che ci invitava ad entrare nel suo mondo, ma invece era solo un militare che aveva lo scopo di vendicare la morte di alcuni commilitoni. Non scendemmo tutti, solo alcuni, e dopo qualche minuto di attesa il camion ripartì per poi fermarsi facendo scendere anche me. Ero terrorizzato e l’ansia ormai mi perseguitava. Eravamo circondati da una distesa di erba verdeggiante, rigogliosa e ricoperta da della rugiada. Il cielo era di un azzurro intenso e con qualche soffice nuvola. Un mio compagno iniziò a correre verso l’orizzonte, gridò:”Sono libe…”, Non fece in tempo di finire la frase che i soldati tedeschi impugnarono i loro fucili e lo uccisero. Non potevamo scappare ed eravamo costretti a sottostare agli ordini di quei soldati.
Tristemente guardai le nuvole e una in particolare mi colpì, continuai a guardarla… Ma certo ! Aveva la stessa forma di una fionda! Guardandola mi tornavano in mente tanti ricordi della mia infanzia, come quando insieme a mio padre, prima che morisse, avevo costruito la mia prima fionda. Ero riuscito solo a legare insieme alcuni bastoncini che non avrebbero mai resistito ad un lancio, così mio padre li osservò e, con quegli stessi occhi che mi avevano sempre dato la forza di andare avanti, mi fece i complimenti per ciò che ero riuscito a fare, anche se non era perfetto, infine mi disse: “Vieni con me, che andiamo a darle gli ultimi ritocchi!”.
Mi portò allora nella sua falegnameria, mi fece vedere tutti i suoi attrezzi e mi svelò i trucchi del mestiere, e quando i legnetti, che erano passati per le sue mani, uscivano da lì, erano diventati una perfetta fionda con cui poi mi sarei divertito a giocare con i miei amici nei pressi di quel bel casolare in pietra con quelle eleganti terrazzine in legno, dove vivevo con la mia adorata famiglia… Già… La mia famiglia… Chissà cosa sta pensando ora mia madre non vedendomi tornare. Quella mia stessa madre che mi ha sempre supportato e aiutato. Mi mancherà! Non voglio provocarle anche questo dolore ha già sofferto moltissimo per la mancanza di mio padre… Come farà senza il mio aiuto… Non riuscirà a portare a casa molti soldi per vivere, non riuscirà a coltivare tutti i campi da sola! Questi pensieri mi distruggevano…
Per pensare ad altro incominciai a rimuginare sulla mia vita, sulla mia seconda casa e sul mio lavoro… Mi tornarono in mente i bei momenti trascorsi con i compagni nella caserma dei carabinieri a Verona. Con loro avevo trascorso ormai un anno entusiasmante prima di tornare ad aiutare mia madre nei campi.
In quell’anno avevo provato forti emozioni, avevo conosciuto delle persone fantastiche, piene di energia, gioiose, altruiste che mi avevano fatto dimenticare la lontananza da casa e dalla mia famiglia. Tutti quei ragazzi erano diventati una parte di me, erano la mia seconda famiglia, che ero stato costretto a lasciare dopo la morte di mio padre per aiutare mia madre a coltivare i campi.
Quegli stessi campi in cui ero cresciuto, giocando con mio padre e imparando a vivere la vita da vincente, come lui mi aveva sempre insegnato. Era un uomo altruista, coraggioso, che metteva sempre la vita degli altri prima della sua. Ed era proprio per questo che mia madre vedeva nei miei occhi il riflesso della sua personalità. Quanto mi sarebbe piaciuto correre di nuovo insieme a lui in quegli immensi campi di granoturco e sentire lo sferzare del vento sulle spighe come se cercassero di dirmi qualcosa. Ed è proprio adesso che immaginai cosa avrei potuto fare durante la mia vita ancora tutta da vivere. Avrei potuto continuare la mia carriera da carabiniere a Verona riuscendo così a mantenere la mia famiglia, avrei potuto anche permettermi di pagare loro una casa dignitosa in quella città, così che avrebbero potuto starmi accanto. Grazie a questo lavoro avrei dimostrato al padre della mia amata di poterle assicurare un futuro dignitoso, pieno di amore. Sarei riuscito a formare una mia famiglia, sostenendola economicamente, cosicché i miei figli avrebbero potuto andare a scuola. Probabilmente tutto ciò sarebbe successo se non fosse scoppiata quell’inutile e orrenda guerra che accomunava la sorte di tutti noi, italiani e tedeschi.
Dei Tos Martina, Fagherazzi Manuela, Pinto Martino, Zago Beatrice della classe IIIB
IL PARTIGIANO CASERA
Era la sera del 23 febbraio 1922, l’orologio segnava le 19:00 e a casa Lotto si festeggiava la nascita di un nuovo figlio: Giuseppe. Il bambino, cresciuto, aveva i capelli neri, gli occhi marroni ed era abbastanza alto. Passava la sua infanzia a giocare con i suoi amici nei prati vicino casa. Trascorsero gli anni e, nonostante fosse figlio di umili contadini, nel 1942 fu chiamato alle armi nei servizi di terra dell’aviazione a Milano, una città per lui lontana e che non pensava avrebbe mai visto . Quando si trasferì in caserma, cominciò l’addestramento per la guerra, iniziata il 10 giugno 1940.
Questo è il suo racconto.
E’ il 28 maggio 2002 e sono in una classe terza media a raccontare la mia esperienza vissuta in guerra, per dare una testimonianza e un esempio di un uomo che ha combattuto. Inizio a raccontare ai ragazzi tutta la storia, fin dall’inizio.
Il 23 febbraio 1942, il giorno del mio XX compleanno, il postino bussò alla porta. Credevo fossero biglietti d’auguri per me ma, essendo appena iniziata la guerra, era la lettera da parte del Ministero che mi sanciva l’obbligo a prendere parte al servizio militare. Non avrei mai pensato mi potesse arrivare proprio in quel giorno. Richiusi la busta: le lacrime cominciarono a scendere e con queste venne a mancare anche la gioia di un compleanno così felice. La partenza era programmata per la mattina seguente. A malincuore corsi nella mia stanza a preparare lo zaino con il minimo indispensabile, sperando fosse solo un brutto incubo. Più tardi parlai con la mia famiglia la quale mi tranquillizzò dicendomi che sarebbe andato tutto bene e che sarei tornato più forte di prima. “La guerra rende uomini” disse mio padre e io ci credetti. Passai il resto della serata, e la notte, a sfogliare gli album di famiglia, sperando che un giorno avrei potuto rivederla; mi salì la malinconia quando pensai che forse non avrei mai potuto aggiungere una foto con i miei figli. La mattina seguente arrivò troppo in fretta. Mi alzai dal letto, presi lo zaino e scesi a fare colazione con la mia famiglia. L’arrivo della camionetta era previsto per le 8:00 ma arrivò in anticipo di un quarto d’ora: questo mi costrinse a salutare di corsa i miei cari, lasciando mia madre in lacrime. Il suo abbraccio non l’ho più scordato: era intenso, forte, ma straziato dal dolore e dalla consapevolezza che avrebbe potuto non vedermi più.
L’8 settembre 1943, quando l’Italia passò da essere alleata dei nazisti a esserlo degli angloamericani, dovetti prendere una decisione molto dura: cercare di raggiungere a Sud il nuovo esercito. Era molto complicato, dovevo raggiungere il Po e poi superare gli Appennini. Iniziai il viaggio con il minimo indispensabile, confidando nell’aiuto della popolazione. Quante brave persone incontrai, chi mi diede del pane e formaggio da mangiare, chi un giaciglio dove dormire. Non dimenticherò mai i loro sguardi di paura, ma anche il loro coraggio nel darmi una mano, per me questi erano veri e propri eroi.
Arrivato a Rovigo, mi resi conto che non potevo continuare il viaggio: i Tedeschi controllavano tutti i ponti. Era impossibile superare il Po. Devo la vita a una anziana signora, che accoltomi in casa, mi diede degli abiti da civile grazie ai quali riuscii a ritornare a Belluno, la mia amata cittadina, dove subito mi recai in una caserma dei carabinieri per non essere ritenuto un disertore. Avrei fatto di tutto per non prendere questa decisione, non volevo lavorare per i tedeschi, ma al momento non vedevo alternative. Lavorai come autista presso la caserma Piave.
E arrivò il 14 settembre del 1944… Non potevo sopportare più la condizione di lavorare per i Tedeschi dopo quella barbarie… Qualche giorno dopo, mentre ero in uscita dalla caserma, vidi un uomo dall’aspetto tranquillo che camminava dall’altro lato della strada. Mi guardò e mi fece cenno di raggiungerlo. “Buongiorno”, mi disse, e mi porse una sigaretta. La presi e iniziammo a chiacchierare. Mi chiese cosa facessi da quelle parti ed io gli risposi che ero uscito per prendere dei materiali per la caserma. Iniziò a parlarmi di quanto Mussolini ci stesse portando alla rovina. Mi disse che si chiamava Dino. Io annui e feci un altro tiro. Ero meravigliato del fatto che uno sconosciuto avesse il coraggio di esporsi così, erano tempi in cui per molto meno si poteva essere arrestati e trucidati. Lui continuò e mi fece capire che c’era un’alternativa, aderire al movimento partigiano, un gruppo di combattenti armati che non formavamo un esercito regolare ma organizzavano comunque resistenze contro i nemici. Nonostante i miei timori, gli confidai che anch’io dovevo decidere se continuare nel nuovo esercito o diventare, come lui mi aveva detto, un partigiano. Dino mi disse che, se avessi avuto bisogno, mi avrebbe potuto aiutare. Ero in ritardo perciò lo salutai e continuai per la mia strada. Durante il tragitto non smisi di pensare a ciò che mi aveva detto. Ci riflettei parecchio e, ripensando alle sue parole e all’orrore del 14 settembre, decisi di diventare un partigiano. Cercai Dino e gli comunicai la mia decisione. Mi disse che avevo fatto una buona scelta e mi consigliò di fuggire dalla caserma durante la notte e che, nel caso, lui sarebbe stato disponibile ad aiutarmi. Io accettai. Iniziai a piegare le maglie e a metterle nello zaino, pronto per uscire. Il cuore mi batteva forte e l’agitazione si faceva sentire. Alle 23.00 circa vidi, attraverso la finestra, Dino che mi attendeva con la sua bicicletta: aprii piano piano un portone nel retro, in modo da non farmi sentire, scavalcai il cancello, attraversai velocemente la strada, salii sulla bicicletta e con Dino ci allontanammo. Lui mi portò in una casera ai piedi del Serva dove, poche ore dopo, incontrai il capo dei partigiani di quella zona il quale mi disse che da ora in poi avrei avuto un nome di battaglia e io scelsi il nome Casera.
Un mese dopo, il 27 ottobre 1944, il capo ci svegliò dicendo che i tedeschi si stavano avvicinando e che noi avremmo dovuto uscire per controllare la loro distanza da noi. Uscii, forse troppo allo scoperto, e un proiettile nemico mi sfiorò una spalla. Molte volte negli anni successivi ripensai alle emozioni che avevo vissuto nel momento dello sparo: pensai che avrei potuto morire di lì a poco e che, forse, in quegli album di famiglia, non avrei mai più potuto aggiungere una foto per davvero; ripensai alla mia infanzia, a quegli anni, a quanto si stava bene, a come si viveva in tranquillità, con la spensieratezza di un bambino come me, mentre giocava nei prati con gli amici, non pensando al futuro e a cosa sarebbe potuto succedere.
E giunse il I maggio 1945, ormai gli alleati erano alle porte di Belluno, la guerra stava per finire e i Tedeschi dovevano trattare i termini della resa. Noi ci avvicinammo alla Rossa. Quando arrivai in bicicletta sul posto, mi vide un tedesco, cercai di nascondermi invano e il tedesco sparò. Non avevo scampo: dovevo difendermi, quindi uscii allo scoperto e sparai un colpo contro il tedesco, uccidendolo. Sì, avevo ucciso per la prima e unica volta un uomo! Appena me ne accorsi mollai il fucile a terra. Mi sentivo distrutto: avevo ucciso un soldato che, alla fine, era come me e che, forse, come me, era entrato nell’esercito per difendere la sua nazione, anche a costo di morire.
I miei compagni mi presero e mi portarono al sicuro. Mi dissero che avevo fatto bene ad ucciderlo, che in fondo era stato lui ad iniziare a sparare contro di noi, noi dovevamo, e avevamo il diritto, di difenderci. Mi dissero che erano orgogliosi di me, e che anch’ io avrei dovuto esserlo, avevo difeso me stesso e loro dal pericolo, avevo fatto ciò che dovevo fare in quel determinato momento, niente di sbagliato. Forse, sotto sotto, anch’ io, in parte, ero orgoglioso di me stesso.
Pochi giorni dopo la guerra terminò ed io tornai a casa dai miei famigliari: tutto era finito, potevo finalmente abbracciare la mia famiglia dopo questi duri anni di guerra; avrei potuto aggiungere tutte le foto che avrei voluto nell’album della mia famiglia: ero tornato da loro.
Concludo dicendo ai ragazzi che questi eventi non dovranno mai più ripetersi e che a tal fine, però, non dovranno mai essere dimenticati. Dico loro che oramai le persone testimoni dei fatti rimaste in vita sono poche e molto anziane e che i giovani devono essere la loro voce. Rivelo loro infine che mai ho superato il dramma di aver ucciso un uomo. Alcuni anni dopo la fine della guerra avevo cercato di conoscerne il nome per incontrare la sua famiglia, per spiegare il perché di quella uccisione. Non riuscii nel mio intento e di questo mi rimarrà per sempre il rammarico.
Boaretto Serena, De Carlo Martina, Fistarol Emma, Paganini Giorgia, Zullo Teresa della classe IIID